Lockdown Italy: non è uno stop e non siamo nemmeno in folle



Il termine lockdown è usato solitamente nel contesto carcerario, per definire uno stato di isolamento dei prigionieri in funzione della loro pericolosità o di misure punitive particolarmente ferree. Uno stato che in Italia, da anni, associamo al regime carcerario 41 bis, una misura introdotta nel 1975, inizialmente per far fronte alle rivolte all'interno delle prigioni, e poi estesa alla detenzione dei boss mafiosi nel periodo dei maxi processi.

Questo regime, detto anche “carcere duro”, ha ben poco a che vedere con quanto stiamo affrontando ormai da un mese, in Italia e in molte altre nazioni in tutto il mondo. Posto che l'applicazione del lockdown varia, anche di molto, da un Paese all'altro e da una zona all'altra in funzione del livello di contagio del virus, qui da noi questa misura è quanto di più lontano si possa immaginare da uno stato detentivo.

La quarantena del nostro Paese è infatti una condizione estremamente variabile e soggetta a molteplici deroghe e interpretazioni. Chi oggi non sta lavorando, perché la sua azienda è chiusa, perché lavora da casa o perché non lo faceva nemmeno prima, per uscire di casa deve produrre un'autocertificazione che attesti uno stato di necessità indifferibile: motivi di salute, emergenze, approvvigionamento di beni di prima necessità e poco altro.

Un confinamento elastico, dunque, che riguarda una vasta fetta della popolazione, si dice prossima al 60% del totale, che tuttavia non blocca il Paese ai livelli e nel modo che si potrebbe supporre. Tenere a casa oltre la metà degli italiani, infatti, non ferma e non blocca davvero un'enorme fetta delle attività e imprese, ma al massimo le rallenta.

Tenere a casa un numero di persone così elevato ha certamente effetto sui trasporti e sulle attività correlate, ma se l'Italia fosse davvero ferma non avremmo la possibilità di combattere il virus e di curare i malati, di assicurare il rispetto della legge, di soccorrere chi è in difficoltà, di fronteggiare incidenti di qualsiasi natura e molto altro.

E soprattutto non avremmo in casa elettricità, acqua, gas, cibo e servizi di alcun genere. Saremmo alla catastrofe, non di fronte a una fisiologica diminuzione del PIL e al netto peggioramento di un quadro economico già critico, sebbene non ancora compromesso.

Ad essere ferma davvero è dunque soltanto una piccola parte del tessuto produttivo. Per lo più quella più debole e già fortemente esposta, composta in gran parte da esercenti, artigiani e piccole imprese. Negozi, botteghe, piccoli ristoranti e altre realtà che probabilmente non apriranno più e che rischiano di chiudere nel peggiore dei modi possibili, perché già prima del virus navigavano in acque agitate.

Milioni di persone in tutta Italia, centinaia di milioni nel mondo, i cui lavori non sono essenziali e il cui apporto al PIL e all'economia nazionale e mondiale era probabilmente trascurabile. Persone il cui lavoro assomigliava più al no profit che al business e che questo modello ha sempre guardato con sospetto. Che senso ha in un sistema come questo lavorare dieci o dodici ore al giorno per arrivare a stento a fine mese, infatti?

Questi lavoratori sono stati sin qui i più bersagliati. Sono stati tacciati di evasione fiscale, accusati di incapacità, di scarsa ambizione e considerati irrilevanti. Eppure le vetrine vuote per le strade mettono tristezza a tutti e rappresentano un problema comune a molte città. Un vuoto e una desolazione che la parola lockdown incarna invece alla perfezione.

Ad essere isolati in casa sono dunque per lo più lavoratori la cui opera è considerata non essenziale e il cui apporto all'economia non è fondamentale. Milioni di persone che in questo modello rischiano di essere del tutto irrilevanti e alle quali, dopo il lockdown, si dovrà necessariamente tendere la mano e offrire vere e concrete opportunità di riconversione e di reinserimento. Proprio come avviene per i carcerati e presumibilmente con lo stesso rischio di fallire.

Photo by kenneth tecson from Pexels

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